Giulia
tornava a casa da una serata di giochi.
La notte aveva già sedotto il cielo e reso corvino come nel romanzo che stava leggendo in quei giorni. Le sembrò di esserci finita dentro, inabissata in qualche pagina poco oltre l’incipit; quando la protagonista ha ancora un mondo davanti a sé pronto a mutare di pari passo con la penna dello scrittore. Si sentiva il personaggio principale, l’unica ad essere lì fuori a quell’ora della notte, era speciale, come quando da ragazzina indossava le cuffie, faceva partire la sua canzone preferita e tutto il resto si muoveva con lei, come se fosse al centro di una maestosa coreografia.
In realtà era in ritardo e il pensiero di trovare suo padre ancora alzato, in cucina, con il piede di guerra pronto a scattare verso di lei non face altro che contribuire a distruggere la magia nell’aria.
Eppure non riusciva a preoccuparsene come i suoi genitori avrebbero voluto. Erano pronti ad attaccarla con la storia delle responsabilità, della patente presa da poco, e del non tirare troppo la corda altrimenti… Ma la serata era stata troppo bella; si era divertita con i suoi compagni di classe. Avevano parlato, scherzato, usato i giochi da tavolo, e i minuti avevano messo il turbo, le lancette dell’orologio a muro nella taverna sembravano sul punto di non voler più smettere di vorticare al doppio della velocità. E il tetto massimo stabilito prima di uscire, mezzanotte, rapidamente era stato seminato dalle ore più piccole della notte.
Aveva avuto un sobbalzo, Giulia, quando si era decisa ad assecondare l’orologio senza dare al tempo la possibilità di fuggire ancor di più.
Le tre, segnava il suo Casio con i piccoli numeri digitali. Oddio, non può essere! Aveva pensato scattando in piedi dalla sedia. Poi si era frugata nelle tasche in cerca dello smartphone; l’orologio non mentiva, né era impazzito per qualche oscuro motivo. Era semplicemente tardi.
Salutò tutti e come una rondine ritardataria salì in macchina. Per un brevissimo momento ebbe la sensazione di essersi dimenticata ogni nozione appresa a scuola guida. In fondo aveva la patente da solo quattro mesi e la rigidità dei primi tempi stava pian piano iniziando a scemare. Ma ora, con l’ansia di un mastodontico ritardo sulle spalle le sembrò di soffocare. La cintura di sicurezza era sempre stata così stretta? Il volante così duro? E i pedali tanto in basso da essere irraggiungibili?
Ora calmati, o rischi di andare a sbattere da qualche parte! Si disse Giulia ritrovando il tipico controllo che la contraddiceva.
Iniziò a guidare rispettando i limiti, senza correre, farlo non le avrebbe portato nessun beneficio. Decise invece di godersi la quiete prima della drammatica tempesta casalinga. Le notti estive riuscivano a farla respirare e quella in cui Giulia era immersa somigliava ad un quadro dipinto da un pennello con setole di tranquillità. Ogni cosa era al posto giusto; dalla città silente, alle poche finestre ancora illuminate dai lampadari. Dalla voglia di restare ancora in mezzo all’immobilità della notte, alla strada sgombra che la Fiat Punto continuava a macinare sotto agli pneumatici turbinanti.
Giulia era al centro di quei pensieri quando sentì il cellulare vibrare al contatto con la coscia sinistra. Si irrigidì di riflesso, poteva essere solo suo padre mentre percorreva chilometri tra la cucina e la sala. Giulia guardò il display per puro scrupolo. Fece per rispondere prima di gettare il cellulare nella nicchia sotto allo stereo. Non aveva voglia di sentire gli strepiti prima del tempo. Si sarebbe presa le sue responsabilità, ora però voleva solo continuare a guid…
Alzò la testa e non riuscì a capire subito dove fosse. La città, prima avvolgente a destra e sinistra, ora se ne era andata e lei stava seguendo quella che aveva tutta l’aria di essere una corsia d’accelerazione.
Non era finita in un mondo lontano, aveva imboccato l’E45, la superstrada che passava poco distante da casa sua. Niente panico, non le piaceva quella strada, ma l’aveva già percorsa altre volte, anche con la scuola guida. Doveva continuare diritta per due chilometri e mezzo, poi si sarebbe trovata davanti l’uscita Terni-Nord e a quel punto il gioco era fatto. Addirittura con qualche minuto prezioso recuperato.
Poteva accelerare, doveva e prese a premere il pedale del gas. Strinse il volante con entrambe le mani.
Un chilometro e cento metri più tardi dalla macchina giunse un borbottio apparentemente silenzioso che poi, con il passare dei secondi diventò acuto, simile a un fischio lontano, impossibile da ignorare.
Tutto l’abitacolo iniziò a sobbalzare, come se Giulia avesse deciso per sbaglio di passare per una strada di montagna ferita dalle buche. L’asfalto però era liscio, da poco rifatto, lucido come la striscia discontinua al centro della carreggiata.
Adesso il panico la inondò insieme al sudore freddo sulla fronte. Giulia si ritrovò a premere a fondo il freno, nella speranza di far cessare quei tremendi sobbalzi, e con mani tremanti ad accostare a destra, evitando per un soffio di strusciare sul guardrail. Non c’erano rientranze e non riuscì a mettersi in sicurezza nella pancia di una piazzola di sosta.
Accese le quattro frecce premendo con foga e frustrazione il triangolo rosso sul cruscotto. Lampi gialli intermittenti illuminarono la notte come il flash di una vecchia macchina fotografica. Di vecchio là in mezzo c’era solo quel catorcio di lamiere che sua madre si ostinava a chiamare macchina.
“Vaffanculo…” Bisbigliò a denti stretti mentre recuperava il cellulare dalla nicchia in cui era stato lanciato pochi minuti prima.
Scese nella calda notte estiva aiutandosi a vedere con la torcia dello smartphone, ora simile a un fascio di luce primordiale in mezzo al buio della strada. Non le fu necessario arrivare davanti al cofano per accorgersi del fumo grigiastro che saliva verso le stelle, né del calore proveniente dallo stesso, così intenso da mischiarsi con l’umidità degli alberi sul bordo della carreggiata.
Solo in quel momento Giulia si guardò intorno per la prima volta e l’idea di essere scesa dalla macchina per accertarsi del danno le sembrò la cosa più stupida da fare. Là, in mezzo all’ E45 la notte sembrava essersi potenziata di una carica mistica tanto forte da gravare su tutto ciò che la circondava. Cosa la circondava? L’aria, per esempio, si era fatta più pesante, rarefatta, e Giulia non riusciva quasi ad inalarla, come se fosse troppo densa, come se la notte l’avesse compromessa e avvelenata.
Era un attacco d’ansia, semplice panico dovuto al fatto di essere fuori nel nero, dentro al nero, inabissata non in una pagina di un romanzo, ma in un antro tanto profondo e scuro da farle impressione.
E si ritrovò rigida a spostare la torcia da un punto all’altro, cercando di illuminare tutto ciò che la circondava senza riuscirci. C’era sempre qualche angolo buio intorno a lei ed è proprio nel nero che i mostri brulicano. Ma c’erano davvero? Giulia fu certa di vederne almeno tre fra uno spostamento del fascio di luce e l’altro. Uno aveva grosse braccia, esili e ramificate. Un altro se ne stava appollaiato sulla cima di un albero oltre la strada. E il terzo, il terzo sembrava inseguirla evitando la luce, ma questa non poteva essere ovunque e non avrebbe potuto…
Si ritrovò a correre in macchina con gli occhi gonfi di lacrime, si chiuse dentro. Prese a respirare, respirare. Respi…
Due luci distanti, gialle, come piccoli soli emersi dalle tenebre l’accecarono dallo specchietto retrovisore. Venivano nella sua direzione a gran velocità. Era un tir di notevoli dimensioni e con l’avvicinarsi, Giulia riuscì a distinguere altri particolari prima censurati dal buio.
Ora mi prende. Pensò lei senza esitazioni. L’autista doveva essere in ritardo a giudicare da come lanciava quel bestione a sedici ruote invece di starsene beatamente fermo a dormire in qualche autogrill. Anche lei doveva essere già a destinazione, immersa nel pieno della paternale, che in quel momento le sembrò la cosa di minor conto, quasi piacevole. Avrebbe preferito sentire suo padre per un anno intero, piuttosto che rimanere un altro minuto dentro a quell’auto in panne sul ciglio della strada con un tir in avvicinamento.
L’autista però era concentrato e si accorse già da lontano del lampeggiare delle quattro frecce. Non ci pensò un secondo e, come un qualsiasi uomo abituato a macinare chilometri farebbe, mise a sua volta la freccia a destra e si fermò a pochi metri dalla Punto.
Giulia aveva fissato tutto dallo specchietto, un misto di emozioni si insidiarono nella pancia, che improvvisamente sentiva gonfia e dolorante. Ma cosa voleva quell’uomo? Era un pazzo, un malintenzionato, uno stupratore? Ma no era ciò che faceva al caso suo, una manna dal cielo, un colpo di fortuna! Voleva solo che se ne andasse, non aveva bisogno di uno sconosciuto in mezzo al nulla. Ora avrebbe risolto il problema, bastava solo restare calmi, non era di certo la fine del mondo. Se solo le fosse successo di giorno… con la luce, con il sole. Ma il chiarore, l’alba era ancora lontana, un miraggio inarrivabile e il tempo sembrava trascinarsi a stento. Da quanto era ferma?
Uno schiocco sul vetro. Poi un altro più deciso con l’indice piegato.
Non voleva guardarlo, non serviva, la faccenda si stava già risolvendo da sola, in modo naturale.
“Ehi ragazzina, ti serve una mano? Se hai la batteria scarica ho i cavetti nel camion.” Fece lui con voce decisa, ma gentile.
Non poté più ignorarlo e spostò lo sguardo verso sinistra. Fuori, nella notte c’era un uomo normale; non brutto, non sporco, solo incredulo di trovare una piccola donna bloccata nel mezzo dell’E45.
“Oh grazie mille, ma non si preoccupi.” Si schiarì la voce tremante cercando di camuffare la paura. “Credo che il danno sia più grave.” Guardò il volto dell’uomo stupirsi ancor di più.
“Se apri il cofano posso darci un’occhiata.” Disse lui indicando con il pollice il muso della vettura.
Vattene! Vattene per favore, ho già abbastanza cose a cui pensare e parlare con uno sconosciuto è l’ultima della lista. Pensò lei riuscendo a stento a trattenersi dall’urlare. L’uomo continuava a guardarla.
Aspetta, potresti fargli controllare, magari te l’aggiusta e te ne torni a casa in un battibaleno. Provò a dirle una vocina venuta da un angolo remoto della mente per consolarla. Giulia però non voleva sentire neanche se stessa e fu lesta a metterla a tacere: Ma hai visto il cazzo di fumo venire fuori? Si sarà bruciato tutto! Questo tizio può solo continuare a spaventarmi! Quindi per favore adesso…
Pensò lei, invece disse: “Ho già chiamato mio padre, che a sua volta ha informato il soccorso stradale, fra pochi minuti saranno qui. La ringrazio infinitamente dell’interessamento, ma va già bene così.” Ora era Giulia a sorridere all’uomo che di punto in bianco sembrò tranquillizzarsi a sua volta.
“Oh meno male. Se vuoi aspetto con te. Ti si è fermata proprio in un brutto tratto.”
Giulia scosse energicamente la testa: “Vada pure, non vorrei farle perdere tempo.”
L’uomo fece spallucce e notando l’imbarazzo della giovane decise di non insistere oltre, non voleva di certo spaventarla: “Se sei tranquilla te, io proseguo. Sono in ritardo e il capo è tutt’altro che comprensivo.” Poi alzò la mano in un cenno di saluto, immediatamente ricambiato dalla ragazza.
Pochi istanti dopo vide sfilare di fianco a se il bestione a sedici ruote, lo fissò finché non lo vide sparire dietro alla curva immediatamente prossima al punto in cui la sua macchina aveva deciso di morire. Bene, una cosa era stata sistemata con una colossale bugia; nessuno stava venendo a prenderla perché anche se detestava ammetterlo aveva paura di chiamare suo padre, delle sue parole, di aver disubbidito e di essere finita in quella situazione del cazzo.
Ma doveva, era l’unico modo. Prese il cellulare, lo scrutò senza quasi riuscire a tenerlo fermo fra le mani. Il pollice andò a cercare l’icona della chiamata persa che ancora troneggiava al centro del display.
Uno squillo… due squilli… tre… quattro… suo padre rispose restando in silenzio.
“Papà aiutami, la macchina si è fermata sulla superstrada!” Fece lei tutto d’un fiato.
“Che ore sono?”
“È tardi lo so, ma non è colpa mia!” Rispose lei sentendosi una bambina di quattro anni alle prese con una marachella.
“E di chi è la colpa?”
“Della macchina!”
“Ah si…” Silenzio, poi: “Hai deciso di tornare tardi, sei grande, quindi sbrigatela da sola. Il soccorso stradale è pagato, chiamalo e fatti mandare un carroattrezzi. Vediamo se capisci.”
“Ti prego… papà! Aiutami, non sono… capace, ho paura!” Le lacrime fino a quel momento trattenute scesero copiose e i singhiozzi la resero una bambina balbuziente.
“Forza, e chiuditi dentro. Ormai sei grande, non ci crederai più, ma da piccola ti ricordi quanto ti metteva paura la storia di Ermina l’untore? Se fossi in te mi sbrigherei a chiamare. Quella era proprio la sua zona preferita.”
Silenzio dall’altra parte del telefono, c’era solo Giulia che continuava a urlare dentro ad un auto silenziosa e immobile. “Stronzo del cazzo! Stronzo!”
La vocina arrivò tempestiva a soccorrerla :Stai calma! Lo sai meglio di chiunque altro che tuo padre non ti lascerebbe mai in mezzo al nulla. Probabilmente sta già chiamando per te e tra pochi minuti sarà qui. Quindi stai calma, per favore.
“No… no, era furioso! Questa volta me la fa pagare, mi farà restare qui finché non faccio qualcosa. Ma me lo merito! Me lo merito!” Ora teneva la faccia fra i palmi delle mani e i capelli ricadevano come serpenti sulle gambe coperte dai pantaloncini di Jeans.
E poi… un’ondata di ricordi inquietanti le strisciò dentro il cervello. Si mischiarono all’oscurità incombente, gravosa, spaventosamente presente. Ermina… l’untore… da quanto tempo non ci pensava? All’uomo della peste che nel 1630 vagava per quelle le vigne sputando la sua bava infetta sul raccolto dei poveri contadini? Con i bubboni sulle braccia, sotto le ascelle, sulla faccia, fin dentro le orecchie. E la leggenda voleva che tutt’ora, fra quelle colline, si trovasse una strana sostanza fra i cespugli, sulle staccionate delle fattorie, nei vecchi granai.
Suo padre amava spaventarla con quella storia, ma quando lei le chiedeva cosa fosse la roba che l’untore lasciava in giro, il babbo non riusciva a fornirle una risposta realmente valida, a cui credesse lui per primo. Doveva essere qualche animale, qualcosa di strano, ma di razionale, di contemporaneo e non la bava di un infetto della prima metà del 600.
Non poteva essere, Ermina l’avevano bruciato appeso a un ulivo, con i polsi legati e il torace squarciato. Era morto. Per sempre. Ma c’era qualcos’altro che suo padre le diceva… ma cosa? La maledizione, l’untore aveva maledetto quelle terre e tutti i contadini per secoli.
Non dire assurdità Giulia! Te ne prego! Respira! Non ci riusciva, i polmoni sembravano non seguire i movimenti del diaframma, andavano per conto loro, sobbalzavano come i pistoni impazziti della macchina, gli stessi che avevano deciso di corrompersi in mezzo alla terra dell’untore.
Non esiste nessun untore! Lo vuoi capire? È solo soggezione!
Un fruscio, dei passi, qualcuno stava camminando, ma dove? Veniva dal bosco a destra della strada. Le sembrò che fosse sopra il tetto della macchina. No, gli girava intorno come quel cane rabbioso descritto da Stephen King, ma un cane non ha le mani e non può aprire lo sportello, ma un untore, un appestato…
Ora i rumori erano indiscutibili, nessuna voce nella testa le avrebbe fatto cambiare idea. Accese la torcia e illuminò di fuori, il vetro le restituì la maggior parte della luce accecandola per un istante. La macchina sembrava più piccola, più stretta, claustrofobica come una bara, e l’oscurità la terra sotto cui era destinata a rimanere bloccata per sempre.
Scappa! Vattene! Non c’era più calma, controllo, anche la coscienza aveva lasciato il passo alla paura. Giulia si ritrovò a girare la chiave nel quadro, la vecchia Fiat si accese per un breve istante prima di spirare con uno scoppio secco del motore.
Qualcosa le graffiò la faccia, un’esplosione di vetri, l’untore si era stancato di girare intorno alla macchina come un grosso squalo bianco, aveva deciso di prendersi la preda, la bella bagnante.
Una mano callosa le afferrò i capelli e Giulia si ritrovò ad essere trascinata fuori. Urlò come non aveva mai fatto in vita sua mentre cercava di togliersi di dosso quella morsa ferrea.
“Ti prego Ermina… io non c’entro niente!” Fece mentre sentiva l’asfalto graffiarle le gambe nude.
“Ma chi cazzo è Ermina?” Disse prima di scoppiare in una fragorosa risata.
Giulia guardò combattendo con il dolore alla cute e riconobbe subito il tizio del camion. Era tornato, ma non aveva più quella faccia tranquilla, quel sorriso paterno, quell’aria rassicurante. C’era qualcosa di diverso, di primitivo in quella camminata scomposta.
“Lasciami! Lasciami! Per favore!”
“Non posso!” Rise a denti stretti. “Me l’ha detto lui. Lui vuole divertirsi, e il tizio che hai conosciuto prima, ora non c’è. Sta dormendo.”
“Ma che stai dicendo! Chi è che te l’ha detto?”
L’uomo si picchiettò l’indice sulla tempia destra: “Quello che abita qui dentro. Quello cattivo. Quello che ogni tanto uccide il brav’uomo.”
Poi la colpì, la trascinò nel camion che aveva lasciato oltre la curva, nel punto in cui Giulia non poteva vederlo nonostante avesse controllato le luci della cabina sparire nella notte.
Suo padre arrivò dieci minuti più tardi.