Con l'arrivo della primavera, la casa in campagna si affollava ogni giorno di più. I bambini inventavano giochi nuovi utilizzando tutto quello che trovavano, spesso anche cose che non potevano prendere, nascondendosi a trafficare in oggetti preziosi con scambi di caramelle e biscotti, al riparo da occhi indiscreti e soprattutto adulti. Scavalcare le reti, rovinandole puntualmente, era una delle principali conseguenze del gioco del nascondino. Era forse il gioco preferito, perché dava modo ai bambini di creare coalizioni e nascondersi in piccoli gruppi e, nel momento della scoperta, le corse veloci generavano sempre strattoni e spintoni, che tanto facevano divertire e piangere. Un tronco cavo di un ulivo storto, un muretto fatto di mattoni abbandonati, cespugli. Eppure,anche se lo spazio era grande, i posti migliori per nascondersi finivano presto, e i più arditi iniziavano a scavalcare la rete del pollaio o quella dell'orto, o si infilavano nel casotto per mungere le pecore. I piccoli ortaggi che spuntavano venivano calpestati, le galline si spaventavano lasciando uova rotte dappertutto, le pecore si agitavano per il trambusto.
Era inevitabile, quindi, che la nonna iniziasse a urlare, e a qualcuno potevano anche pizzicare le cosce per una ciabattata presa al volo. Il nonno allora si alzava dalla sua sedia in veranda, senza dire una parola, e abbandonava per qualche minuto il fresco del salice piangente; prendeva una lunga corda robusta e una tavola di legno e se ne andava al grande ulivo. I bambini stavano tutti intorno al nonno a guardare quelle mani svelte che facevano nodi stretti. La corda veniva bloccata alla tavoletta e poi l'altro lato veniva lanciato in alto con un tiro preciso, a oltrepassare il ramo più solido. La corda riscendeva rapida nel silenzio dei bambini, che fingevano di essere pazienti e buoni. Un altro nodo, e l’altalena finalmente era finita. Il nonno, soddisfatto, lanciava una rapida occhiata a quella moltitudine di nipoti e se ne andava dicendo solo "Non vi imbrigate".
Non si era accorto, mentre montava l'altalena, di quello che accadeva tra il suo pubblico. I bambini bisbigliavano tra loro, rimpallandosi i vari "Vado prima io", "No, salgo prima io", volavano le prime minacce come "Che ti meno!", e intanto c'era chi pizzicava il compagno vicino, chi prometteva ulteriori botte, chi rivendicava diritti di primogenitura.
Il nonno non sapeva quale strumento di odio e violenza avesse appena generato. Eppure andava di nuovo a riposare al fresco del suo salice, sereno e soddisfatto. Come i bambini restavano soli, si apriva la diatriba. L'onore assoluto del primo giro spettava al primo nipote maschio. Nessuno osava contraddirlo, anche perché, nonostante avesse tutto il diritto di spadroneggiare, era un ragazzino giusto ed equo. Dondolava qualche minuto solo per il gusto di essere il primo, non tanto per il gioco in sé, che trovava noioso e da "femmina", e nel frattempo il bisbiglio tra gli altri cominciava ad alzarsi, ma nessuno ancora osava dire qualcosa. Il secondo giro spettava alla cuginetta venuta da lontano. Era sempre molto gentile con lei, e le riservava un trattamento di riguardo. Tronfia e piena di orgoglio, la bambina saliva sull'altalena tra gli sguardi indispettiti di un paio di cugine, sorelle del primogenito maschio della casata. La guardavano con un certo disprezzo chiamandola "fanatica"; se il fratello maggiore si fosse anche permesso di spingerla, come minimo non le avrebbero parlato per l'intera giornata. Il tempo che lei aveva a disposizione era sempre di più di quello riservato agli altri, e la zuffa non tardava a scatenarsi. Il cugino più grande gestiva la durata dei turni, mentre i bambini si strattonavano per salire sull'altalena per primi. Qualcuno piangeva, e qualcun altro prendeva un ceffone dal compagno. La storia poteva durare ore, ore lunghissime, in cui gli adulti potevano stare tranquilli a fare le proprie cose, le galline avevano le uova al sicuro e le pecore non subivano invasioni. E i bambini giocavano e si azzuffavano tutti tra loro.
Poi arrivava il diversivo. Nel tardo pomeriggio scendeva dal paese un'altra figlia, con bambina al seguito. Era una donnetta piccola ma con il cipiglio di un bersagliere, di un'eleganza fatta di luccichini e pizzetti in ogni dove e una voce così acuta da far risvegliare un moribondo, tanto urlava, anche solo per parlare. La bambina che le camminava accanto era molto alta per la sua età, di un colorito chiaro che sapeva di mancanza di sole e di mare, e anche i suoi capelli erano ramati e disperatamente lisci. Nonostante l'altezza camminava curva, come per timore di guardare il mondo, aveva una vocina pigolante e lagnosa e dei grandi denti dritti e bianchi. Era una bambina sfortunata, perché aveva perso i genitori e la stava crescendo una zia molto severa che aveva dei figli orribili.
Arrivava in campagna con le sue scarpette pulite e il vestito di raso con pizzi e fiocchetti. I capelli perfettamente pettinati in un caschetto che spiombava sulle spalle e gli orecchini che dondolavano alle orecchie. La accoglievano dei bambini sciatti e anche un po’ sporchi, vestiti con le cose più logore che avessero e scarpacce rovinate ai piedi per poter correre meglio, pronti a diventare parte integrante della campagna selvaggia che li circondava, già cotti dal sole a primavera e con i capelli neri spettinati. Erano un lurido branco pronto a coalizzarsi contro uno stesso, inerme nemico, infischiandosene sia dell'altalena che della buona educazione che avevano ricevuto dai loro genitori.
"Cia’". Era l'unica parola che qualcuno le rivolgeva, guardandola senza espressività e al massimo salutandola con la mano. Il mormorio cambiava da "Salgo prima io" a un perfido "Ma come è vestita questa?". Qualcuno diceva anche cose del tipo "’Sta stupida...". Eppure non era stupida. Forse era solo molto ingenua e terribilmente spaventata di ricevere l'ennesima punizione per un comportamento sbagliato; sembrava che, qualunque cosa facesse, quella bambina avesse sempre torto e dovesse essere punita per questo. Se ne stava in silenzio, poco distante dal gruppo, sorrideva in modo forzato, e acquisiva un'espressione ebete quando quel sorriso diventava una sorta di paresi e continuava a insistere sul suo faccino. La bambina che veniva da lontano si avvicinava, allora, alla cuginetta, senza capire il motivo di tanto astio. Provava a parlarle: avendo la stessa età potevano avere anche cose comuni di cui discorrere, ma le risposte che riceveva erano strane. Sembrava che nemmeno fosse mai andata a scuola, eppure ci andava, anche se, a quanto dicevano, se ne stava con la testa per aria. La bambina pensava che, forse, era davvero un po' tonta. Eppure la poveretta, alla fine, riusciva a sciogliersi un pochino, e a un certo punto osava dire: "Posso andare sull'altalena pure io?". In un primo momento le veniva risposto di no. Era un “no” secco e antipatico, spesso accompagnato da motivazioni cattive come "No, perché sei stupida" o "No, perché sei brutta". La bambina, sfinita dagli insulti, iniziava a provare a tirar fuori le unghie e si faceva largo tra gli spintoni per arrivare al gioco. E mentre gli altri si alternavano a salire e scendere dall'altalena, cercando di non farvela avvicinare, qualcuno allungava pizzicotti o le tirava i capelli. Osservava i cugini giocare e ridere di lei e intanto la rabbia e la tristezza le riempivano gli occhi, ma non si arrendeva ancora alle lacrime: teneva le braccia tese lungo il corpo e stringeva i pugni, cercando di trovare il coraggio per affrontarli. Si lagnava quasi sottovoce, e la cuginetta di prima cercava in qualche modo di aiutarla, ma doveva finire per arrendersi anche lei e capire la lezione. Se non si fosse adeguata al branco le sarebbe toccata la stessa sorte e avrebbe fatto la stessa fine di quella disgraziata: già c'era chi la guardava male solo perchè per qualche settimana, in un anno intero, arrivava a prendersi anche lei le carezze e le attenzioni dei nonni e, a detta loro, la cioccolata sulla sua fetta di pane era sempre di più di quella che toccava agli altri.
La bambina col vestito buono continuava a lagnarsi, fino a quando minacciava tutti di andarlo a dire alla "mamma". Ma la madre sentiva gli strilli e interveniva urlando proprio contro la figlia, dopodiché se ne andava di nuovo a fare i fatti suoi, lasciandola umiliata davanti a tutti. E allontanandosi la apostrofava ancora con un "Non ti sporcare", in tono acido.
A quelle bestie di bambini brillavano gli occhi. "Ci vuoi andare in altalena? E vieni...". La bambina sorrideva felice e saltava sulla tavola di legno. Si accomodava bene con il sedere facendo attenzione a non stropicciarsi troppo la gonna, e decretava la sua fine. "Mi spingete?"
E qui la corsa a spingerla, un eccesso di meschino zelo, e chi spingeva le strattonava i vestiti, le pizzicava la schiena, le tirava i capelli. E lei dondolava, mortificata e ancora troppo orgogliosa per reagire. Poi arrivavano quelli davvero cattivi, quelli che sapevano come dare una svolta concreta alla situazione. Le braccia più forti e le menti più subdole a guidarle lì di fianco. Aveva paura di andare troppo veloce in altalena, ne era terrorizzata, e allora quelli spingevano, con tutta la loro forza, sudati e ridenti, e lei andava sempre più in alto, sempre di più, fino a quel punto in cui l'oscillazione perde il ritmo e scuote in modo strano l'altalena. E lei gridava, con le lacrime che le uscivano dagli occhi chiusi stretti stretti: aveva paura, tanta, e loro spingevano sempre di più, prendendosi gioco di lei. Fino a quando lei mollava la presa e rotolava giù dalla discesa sotto l'ulivo. Rotolava sulla terra, la sabbia e i sassolini, si sbucciava le mani e le ginocchia, sporcandosi il vestito di sangue e terra, strappandolo. E correva via dai grandi, tenendosi la gonna con le mani. I bambini restavano fermi e in silenzio, ridendo sotto i baffi e guardandosi con complicità. Dal cortile davanti casa arrivava il rumore di sonori schiaffi e le grida furiose della "madre".
Subito dopo quelle piccole canaglie, soddisfatte, tornavano a fare i loro giochi, e l'altalena veniva nuovamente utilizzata senza più litigare. La cattiveria dei cugini era stata tutta esaurita nell'accanirsi contro quella creatura infelice e senza nessuno che la difendesse.
Il nonno si alzava nuovamente dalla sua sedia e prendeva una corda e una tavoletta di legno, legava il tutto all'ulivo di fronte alla porta di casa e la piccola col vestito strappato, e cinque dita stampate sul viso, dondolava tristemente fino all'ora di tornare a casa.