Quando ho cominciato a pensare di scrivere la mia tesi avevo in mente solo la figura dei campi di concentramento come luogo per eliminare ebrei, avevo in mente solo la definizione di Olocausto.
Alcuni dubitano che l’Olocausto sia un fatto storico, ma per coloro che sono sopravvissuti, per i loro figli, parenti, amici, e per tutti quelli ce hanno perso dei cari in quella assurda macchina di sterminio, la storia si basa su avvenimenti realmente accaduti e su persone realmente esistite. L’Olocausto è stato forse il colpo più sconvolgente che sia mai stato inflitto in tutta la storia all'amor proprio dell’uomo civile. Primo Levi disse: “Mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione d’ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà”[1]. Con il termine Olocausto chi non ha interesse a saperne di più, colloca l’evento solo in funzione degli ebrei, come gli unici a soffrire per mano dei nazisti. Tuttavia è giusto dire che il termine Olocausto si applica solo a loro?
Lo scrittore Richard Lukas[2] afferma: «Udendo la parola Olocausto la maggioranza pensa alla tragedia di cui furono vittime gli ebrei sotto i tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Da un punto di vista psicologico, è facile capire perché oggi gli ebrei preferiscono che il termine sia usato unicamente in riferimento all’esperienza degli ebrei. Tuttavia, escludendo altri dall’Olocausto, gli orrori di cui furono vittime i polacchi, altri slavi e zingari per mano dei nazisti sono spesso ignorati, se non dimenticati.»
Lukas dichiara inoltre: «Per loro (gli storici), l’Olocausto riguardò unicamente gli ebrei, per cui hanno poco se non nulla da dire dei nove milioni di non ebrei, inclusi tre milioni di polacchi (non ebrei), che pure perirono nella più grande tragedia che il mondo abbia mai conosciuto.» Milioni di ebrei morirono e soffrirono semplicemente perché erano di razza ebraica, anche se sarebbe meglio dire di religione ebraica. Per i seguaci di Hitler non aveva importanza che fossero ebrei ortodossi o atei. Erano condannati alla “soluzione finale”, come veniva chiamato il piano di Hitler per liberare l’Europa da tutti gli ebrei, vale a dire lo sterminio. Proprio nel “giorno della memoria”[3], ora dopo aver consultato una lunga documentazione sul fenomeno della deportazione, dico che, purtroppo, non sono la sola ad associare il lager solo all’odio nazista per la razza semita. Ancora oggi, e forse per molto tempo ancora, molte categorie di deportati non sono nemmeno nominate, o se lo sono, non si sprecano più di poche parole per parlarne. Il mio pensiero e quindi il mio lavoro va soprattutto a tutte le donne deportate per motivi politici, a tante donne italiane, di cui si occupano quasi esclusivamente i ricercatori dell’ANED, a tutte quelle madri, figlie, mogli, che sparirono all’improvviso senza poter dare notizia alcuna di loro, talvolta non sapendo nemmeno dove fossero state portate, a quelle donne che, molto poche, tornarono e che ancora possono e vogliono raccontare, ricordare.
L’Olocausto va dunque inteso in senso più ampio: si tratta di un enorme genocidio di ebrei, di testimoni di Geova, ritenuti scomodi e pericolosi per il loro pacifismo, di omosessuali, che andando contro natura non avevano diritto alcuno di esistere, di criminali comuni, di milioni di zingari, di politici, di militari anche, ma solo nel caso dell’Italia. Ma per quale motivo questi deportati vengono poco considerati? Certo il numero di ebrei morti nei campi è nettamente superiore a quello delle altre categorie di internati, ma vi sono comunque stati e non hanno di certo goduto di trattamenti privilegiati: se molti degli ebrei che arrivavano ai campi potevano essere uccisi immediatamente nelle camere a gas, per gli altri internati si sceglievano tecniche più lunghe per condurli alla morte, il lavoro estenuante, le condizioni assurde in cui erano costretti a vivere, le malattie, le violenze. Conoscere quello che è stato all’unanimità definito il capitolo più oscuro della seconda Guerra Mondiale è necessario affinché non possa ripetersi mai più un simile crimine contro l’umanità. Ma tutto quello che è stato fatto, l’informazione che se ne fa ancora oggi, i testi che vengono pubblicati, negli ultimi anni numerosissimi, i film, i documenti proposti dai media, pare non sia sufficiente: c’è ancora chi non sa minimamente cosa sia un Lager, cosa significhi la parola Shoah, cosa abbia vissuto un deportato in un campo di concentramento.
Protagoniste di questa ricerca sono le donne deportate, e non solo le ebree. Ritroviamo fra queste anche le donne cresciute in ambiente educativo di destra che, alla vista dell’orrore della guerra, si opposero abbracciando una nuova fede politica che le spinge a compiere atti di ribellione, di protesta, anche se celati, per proteggere, nascondere, rendere pubblica una voce diversa da quella di chi vuol fare da padrone. L’importanza dell’appartenenza ad una fede politica, che talvolta per ignoranza non è nemmeno ben definita, ma è comunque contraria al nazismo, serve a queste donne a vivere con uno stato d’animo diverso da quello delle compagne ebree la vita nei Lager, loro sono lì per una scelta fatta.
Il lavoro svolto tenta di presentare un quadro dettagliato della condizione della donna nei campi di concentramento nazisti, rifacendosi alle fonti bibliografiche che trattano appunto la sfera femminile nei lager. Purtroppo le fonti autobiografiche femminili sono piuttosto scarse, la maggior parte dei documenti e delle opere scritte nell’ambito della deportazione sono, infatti, scritti da uomini. Le poche voci femminili sono dunque diventate profondamente importanti e preziose, testimoni di una realtà particolare. La lunga bibliografia posta a termine del lavoro svolto riporta numerosi testi sulla deportazione e i campi di concentramento, ma si potrà facilmente notare che la maggior parte non sono stati scritti da donne e comunque sono quasi tutti piuttosto recenti, questo perché si è dovuto attendere molto prima che gli ex deportati uscissero fuori e trovassero il coraggio di parlare, poche sono, infatti, memorie autobiografiche scritte durante o subito dopo l’esperienza del Lager.
All’origine i campi di concentramento vengono realizzati per ospitare, seppur in modo non ospitale, i detenuti politici scomodi al Reich e tutti quei criminali definiti come asociali: si tratta di disoccupati, barboni e prostitute. Dal ’34 si aggiunse poi un’altra categoria, quella degli omosessuali, all’inizio solo soggetti maschi. Campi di detenzione e rieducazione, come il campo di Ravensbrück, presso Berlino, modello di disciplina ferrea, ordine e compostezza, solo per i primi anni tuttavia, destinato alla riabilitazione di sole donne. Con l’intensificarsi della persecuzione antisemita, la decisione di spedire tutti gli ebrei tedeschi e poi di tutti gli altri paesi occupati, finì per essere l’unica soluzione possibile per Hitler al problema ebraico. È a questo punto, con l’inizio della guerra e l’occupazione della Polonia, che si creano moltissimi campi di concentramento. Eretti in luoghi malsani, con strutture inadeguate, senza alcuna considerazione per gli internati, anche perché lo scopo non era quello di detenere delle persone, ma di eliminarle: i campi diventano da subito di sterminio, attrezzati allo scopo con camere a gas e forni crematori. Il campo di Auschwitz, divenuto simbolo dell’Olocausto, funzionò da perfetta macchina della morte, sterminando quotidianamente centinaia di ebrei, zingari, vecchi, bambini e altri deportati. Ma la morte nei Lager non arriva solo attraverso il gas, sono molte le tecniche usate, ogni campo adotterà particolari sistemi e situazione adatte a uccidere il maggior numero di persone possibili, inoltre si muore di fame, di freddo, per malattie umilianti e dilanianti come la dissenteria o il tifo, per le violenze subite da Kapò e SS, per i lavori disumani che devono svolgere.
Il motivo per cui gli studi sulla deportazione femminile sono ancora oggi così scarsi è da cercarsi nel fatto che sono state molte di meno le donne che hanno scritto o voluto parlare subito della loro esperienza, per una forma di riservatezza e talvolta per voler dimenticare. Le testimonianze sono comunque tali da far comprendere il dolore patito, un dolore probabilmente anche più profondo di quello vissuto dagli uomini. Le condizioni in cui vivevano, o meglio cercavano di sopravvivere uomini e donne nei Lager erano pressoché le stesse: la fame, il freddo, le umiliazioni erano simili, ma sopportate in maniera diversa. Gli uomini sopportavano meglio il freddo, le donne la fame, gli uomini soffrivano per la lontananza della famiglia, le donne erano distrutte dal dolore di non poter proteggere i propri cari venendo meno al proprio senso materno.
Un problema esclusivamente femminile della vita concentrazionaria riguarda la maternità. Si a che si tratta di giovani donne che arrivano nei campi incinte o di donne che hanno con sé i propri figli piccoli, le attende lo stesso destino. I bambini non hanno diritto di vivere nel Lager, e nella maggior parte dei casi anche le donne incinte sono destinate a morire. Non poter provvedere al proprio figlio, proteggerlo, curarlo, nutrirlo, è una sofferenza enorme per una donna, quando poi il proprio figlio diventa un marchio, una etichetta per essere destinata a morire, la scelta non appare difficile: la maggior parte delle madri preferisce, infatti, entrare insieme ai propri bambini nelle camere a gas, anche potendo scegliere, preferiscono non salvarsi pur di non lasciare soli i propri figli. È una realtà straziante: migliaia di bambini morti senza aver commesso nessuna colpa, se non quella di essere nati. E nello stesso tempo famiglie spezzate, figlie che vedono morire le proprie madri, sorelle unite fino alla fine nella speranza di salvare qualcosa restando vicine, per tornare, per poter raccontare a chi non c’era quanto riesce ad essere crudele l’uomo.
Altro aspetto particolarmente aberrante è costituito dall’utilizzo di esseri umani, persino bambini e neonati, per sperimentazioni mediche, che, conoscendo quali atrocità vengono commesse, andrebbero chiamate diversamente. La gran parte delle cavie umane dei Lager è morta durante esperimenti assurdi, il più delle volte inutili e privi di fondamento scientifico. Sterilizzazioni, amputazioni, mutilazioni e malattie psicologiche croniche, fanno parte della vita delle poche cavie sopravvissute.
Nonostante le condizioni in cui le donne sono costrette a vivere spesso non si abbattono, a differenza degli uomini che invece subiscono passivamente quel processo di abbrutimento voluto dagli aguzzini. Le donne resistono strette in una sorta di sorellanza, sostenute da legami di amicizia profondi e indispensabili per sopravvivere in mezzo a tanto dolore. Le donne inventano, immaginano, ricordano, tengono vive le loro menti, cercano situazioni di svago, che possono tenerle impegnate e possano essere d’aiuto per le altre, cantano, recitano. Ricordano la loro vita prima della deportazione e proprio grazie a questo riescono a trovare la forza per resistere, per tornare, soprattutto quando ad attenderle ci sono i figli.
L’evacuazione dei campi di concentramento per l’avvicinarsi dei Russi e degli Alleati rappresenta l’ultimo terribile momento per le deportate. I campi vengono velocemente sgombrati, bruciate tutte quelle carte e quei documenti che possono rappresentare una denuncia per le SS, vengono fatti saltare i forni crematori e le camere a gas. Nel pieno dell’inverno i deportati sono costretti a marciare privi di ogni difesa dal freddo e senza cibo, talvolta persino senza scarpe nella neve. Camminano scortati dalle SS e da feroci cani, facendo da scudo alle guardie quando gli aerei alleati bombardano. Marciano per giorni, dormendo all’aperto percorrendo centinaia di chilometri; tutto questo per allungare i tragitti e quindi la loro sofferenza. I deportati, proprio come volevano le SS, morivano per la strada e quando questi non volevano più marciare erano loro stessi ad ucciderli abbandonandoli sul posto. I percorsi delle marce della morte erano segnati da moltissimi cadaveri. Le marce della morte cercarono di concludere, lontano dai liberatori, quel processo di distruzione cominciato nei campi, anche perché i sopravvissuti rappresentavano dei testimoni. L’aspetto particolare delle marce della morte sta nella figura delle SS, zelanti e ossequiosi al regime, si ostinavano fino alla fine di rispettare gli ordini ricevuti, continuando a macchiarsi di orrendi crimini. I campi vengono evacuati, i malati più gravi vengono uccisi o lasciati a sé stessi, altri vengono invasi da folle immense di deportati, trasferiti appunto attraverso le marce, il sistema concentrazionario si disfa, crolla, collassa. Ciò che gli Alleati e i russi trovano al loro arrivo è un mondo indescrivibile, assolutamente irreale. I sopravvissuti, ne abbiamo una ricca documentazione fotografica, non sono esseri umani, ma corpi sfigurati che si muovono.
Dopo la liberazione arriva la “tregua” per tutti simile a quella descritta da Primo Levi[4]. Soprattutto per gli italiani questa è lunghissima, dall’Italia non arrivano soccorsi, non arriva nessun permesso di rimpatrio. La lunga attesa in campi di smistamento gestiti dagli alleati, dagli inglesi, permette agli ex deportati di rimettersi in forze e di pensare a cosa potranno trovare a casa. Non c’è una nazione che aspetta queste persone a braccia aperte, la società italiana, la politica, l’informazione non consentono di comprendere chi in realtà sono questi uomini, queste donne che raccontano cose talmente irreali che sembrano inventate. E se per gli uomini è difficile tornare alla vita normale, per le donne il problema è ancora più grande, l’incredulità si associa alle cattive insinuazioni, il lavoro non c’è e se c’è non spetta comunque a loro, talvolta persino le famiglie le rifiutano.
Da alcun anni l’ANED sta svolgendo una ricerca sulla deportazione femminile, che si basa sulla raccolta delle testimonianze delle donne sopravvissute ai lager nazisti. Nelle memorialistiche sulla deportazione, che pure annovera ricerche pregevolissime, manca, infatti, una specifica e puntuale ricerca sulla deportazione femminile. Ad essa si debbono riconoscere peculiarità particolari che riguardano non solo le ragioni delle scelte di lotta delle donne, ma anche le ferite conseguenti alla loro separazione dalla famiglia, dai figli, al loro impatto con la promiscuità dei lager, e che riguardano, infine l’aggressione alla riservatezza, alla sensibilità e alle necessità femminili, nel lavoro e nella vita del campo; e le difficoltà incontrate dalle superstiti, al momento del rientro, per il reinserimento nella famiglia e nella società. Tutto questo, sino ad oggi, non è mai stato oggetto di specifiche e puntuali ricerche. Una lacuna gravissima, dunque.
Fino ad oggi (2003) l’ANED è riuscita a raccogliere 260 testimonianze. Ottenerle non è sempre stato facile. Alcune ex deportate hanno risposto con una dettagliata testimonianza, consapevoli che queste loro memorie serviranno a far conoscere e comprendere meglio tutti gli aspetti di un periodo tragico della nostra storia, altre, facendo riferimento a qualcosa già scritto e pubblicato anni fa, altre ancora hanno dichiarato di non volere più ricordare questo periodo tanto tragicamente vissuto. Gli storici sanno che le testimonianze “tardive” possono essere inquinate da dimenticanze, omissioni e deformazioni, volute e inconsce. L’interpretazione, sia pure soggettiva, svolge tuttavia una funzione fondamentale nel ricordare gli avvenimenti, perché tutti cercano di dare un significato a ogni situazione. Gli stessi storici ritengono però che la testimonianza orale arricchisca sempre il patrimonio inestimabile della storia scritta.
Dalle testimonianze finora raccolte emerge un importante aspetto della deportazione, soprattutto femminile, sovente sottovalutato: quello che potrebbe essere definito “il dramma del ritorno”. L’incredulità e l’indifferenza di chi non ha conosciuto i Lager si evidenziano in una totale mancanza di interesse per la tragica esperienza della donna; ciò ha condotto molte deportate ad un graduale isolamento e ad un dannoso ripiegamento su sé stesse, mentre diverse patologie s’impadroniscono e turbano ancora oggi il loro stato fisico e psichico. Sono moltissime le donne che hanno parlato di ricorrenti dolorosi ricordi che continuano a turbare, da allora, le loro menti, sino a degenerare in vere e proprie psicosi, trascinandole in frequenti crisi depressive.
Di altre sappiamo che trascorrono periodi più o meno lunghi in ospedali e luoghi di soggiorno climatico, per forme di tubercolosi, gravi disturbi cardiaci, forme acute di insufficienze respiratorie e affette da arteriosclerosi precoce che degenera in stati depressivi e di rifiuto della vita. E per alcune donne non è mai cessata la sofferenza indicibile (che, infatti, non riescono a dire se non con enorme pena) di essere state violentate; quindi doppiamente annullate, nella dignità e nella libertà. Dalle testimonianze raccolte si manifesta una specificità della deportazione femminile che coinvolse anche donne che in quel tempo erano prive di qualsiasi consapevolezza politica. Resta difficile dire in quale misura l’esperienza del lager abbia influito sulle deportate e sul loro rapporto con la società. La raccolta di notizie di tutto quel vissuto, che è stato il lager, deve essere seguita dalla conoscenza dell’atteggiamento che ogni donna deportata ha avuto, in seguito, nell’inserimento nella vita comune e nell’affrontare lo svolgersi delle vicende quotidiane. La stragrande maggioranza delle donne deportate, ebree e non ebree, fossero esse state partecipi della lotta politica o no, è accomunata dall’aver provato traumi laceranti per gli orrori che conobbero fin dall’arrivo nei campi, tanto che ancora oggi, in molte, rimane l'incapacità di darsi ragione di ciò che pure hanno vissuto. Ciò che ha accomunato tutte le donne deportate che hanno lasciato delle memorie o almeno sono state intervistate, fossero esse deportate politiche, ebree o zingare, è il sentimento di solidarietà che nutrivano verso le loro compagne di sventura, tra le quali non esisteva discriminazione per differenze di religione, tradizioni, lingue, costumi, educazione. Questa stessa solidarietà ha permesso a molte di loro di fare ritorno nelle proprie case. Tutte vissero tragicamente la perdita dell'identità individuale; traumatico fu denudarsi tra le brutalità degli aguzzini, diventare solo un numero, un pezzo, vedersi rasate a zero. Non erano più donne, non erano più individui. Nei campi si visse tragicamente anche l'esperienza della maternità: è il caso delle donne che si videro separate dai loro figli, come fu per tutte le donne ebree. È rilevante constatare come in tutte le testimonianze non ci sia assolutamente odio, ma solo volontà e speranza che certe esperienze non debbano più ripetersi. “Tutte desiderano la Pace, anche se tutte, e sottolineo tutte, si pongono e ci pongono una sofferta domanda: è questo il mondo, è questa la società che speravano di costruire, coloro che sono sopravvissute ai Lager?”[5]
[1] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 12.
[2] Richard C. Lukas, Ricordando l’Olocausto: i polacchi sotto l’occupazione dei tedeschi 1939-1944, 2001
[3] Il 27 gennaio ricorre l’anniversario della liberazione di Auschwitz, campo simbolo dei Lager nazisti, viene quindi fissato in questa data la giornata mondiale della memoria per ricordare le vittime dell’Olocausto.
[4] Primo Levi, La tregua, Torino, Einaudi, 1986.
[5] Miuccia Gigante, dalla “Relazione sulla donna nei Lager” in convegno nazionale “Le donne forza di cambiamento ieri e di oggi”, Milano, 1997.