Rosa Onnigrafo Magazine

Rosa

In un vecchio paese fatto di contadini i fanciulli crescevano già con la schiena curva e le ragazze perdevano poco tempo dietro ai vezzi dell’età da marito. Ma come spesso capita che ai bordi delle strade trafficate spuntano e resistono forti e belli i denti di leone, aspettando solo di fiorire e prendere poi il volo per gettar nuovi semi che daranno robusti fiori, così per le strade del paese passava una creatura che ancora non sapeva quanti fiori avrebbe dato al mondo. Le lunghe trecce nere dondolavano sbattendo sui suoi fianchi quando camminava, e nonostante le gonne ampie che la madre le cuciva, la gente si voltava a guardarla, mentre passava per le vie del paese. Rosa era bella da togliere il fiato, una di quelle bellezze difficili da dimenticare, perché troppo distanti da quel canone di bellezza fatto di eleganza, grazia e candore. Rosa era sfacciatamente bella, la pelle ambrata era lucida sotto il sole, il sorriso ampio e sicuro svelava denti bianchi e graziosamente imperfetti. Aveva un nasino piccolo che sottolineava quell’aria sbarazzina e impertinente e gli occhi scuri erano incorniciati da lunghe ciglia folte e nere, anche i capelli sembravano voler imporsi agli stretti nodi delle trecce, sul capo si sollevavano piccoli riccioli ribelli e a fine giornata, tra il sudore e il viso anche visibilmente sporco, tornava a casa con i capelli mezzi arruffati, stanca ma sorridente. Rosa lavorava in campagna come la maggior parte delle ragazze del paese, raccoglieva olive quando era tempo di olio, raccoglieva uva quando era tempo di vino, spesso capitava che passava la giornata ricurva a togliere i sassi al fratello che zappava la terra. Non si risparmiava di fatica, e per far scorrere più in fretta il tempo non stava zitta un attimo, e travolgeva chiunque le stava accanto con un fiume di chiacchiere e storie che spesso esplodevano in fragorose risate.

Non si poteva non notarla. La terra del signorotto che lavoravano da mesi stava iniziando a dare i primi frutti, Rosa un bel giorno riempì un grosso cesto di verdura fresca e lo appoggiò vicino alla fontana, era sua madre che portava la spesa in casa del signore, ma quel pomeriggio il fratellino piccolo di Rosa aveva qualcosa che non andava e sua madre era costretta ad allattarlo più del dovuto. «Rosa porta la cesta in casa che sennò qui si scalda tutto e si rovina.» Rosa ubbidì lieta di farlo, aveva sempre solo immaginato come potesse essere dentro la casa del signorotto. La cameriera la fece entrare dalla porta che dava sulla grande cucina, sul tavolo un pollo mezzo spennato la osservava con occhi vitrei. La stanza era grande e luminosa, alle pareti stavano attaccate pentole e tegami di tante forme diverse, si chiedeva a cosa servissero tutte quelle pentole, il signorotto sembrava vivere solo in quella grande casa, lei a casa sua invece aveva nove fratelli e solo una grossa pentola vecchia e scurita dai carboni della stufa.

Dall’uscio due occhietti sorcini la spiavano da sopra dei sottili baffi. Più in basso una cravattina annodata male spuntava fuori dal panciotto ricamato. Rosa non si trattenne che qualche minuto, giusto il tempo di squadrare la stanza e tutte le cose che c’erano dentro, avrebbe voluto spostare le tendine davanti ai mobili per vedere quante stoviglie, quante tazze, quante posate ci fossero in quella cucina, era curiosa, magari anche di vedere oltre quella porta.

Uscita nel cortile della grande casa Rosa alzò lo sguardo alle finestre, le tende erano leggere ma non si riusciva a vedere molto, ma immaginava una casa bella, come non aveva mai visto. Gli occhi sorcini riapparvero sulla porta. Era l’ultimo figlio del signore del paese, padrone della terra che lavoravano in tanti, quello che avrebbe voluto solo godersi i guadagni di una vita di sacrifici del padre e del nonno. «Buongiorno signorì», la bocca troppo aperta di chi ostenta di parlare in un italiano perfetto. «Buongiorno» Rosa per nulla intimorita rispose. Il giovane con fare audace e spocchioso non perse tempo, ma nonostante lo sguardo ardito, il ragazzo ben vestito non aveva messo in alcun modo in imbarazzo la contadinella, che invece di chinare il capo come educazione richiedeva, scostò le trecce dal petto come a voler meglio metter in mostra la mercanzia. Rosa non temeva le occhiate lascive di nessun uomo, e forse di fronte a un belloccio simile probabilmente il suo ego diventò ancora più grande. «E cosa ci fai qui?» Rosa rispose sicura: «ci lavoro io qui, ho portato la roba in casa, dall’orto».

L’uomo continuava vezzoso a torcersi un baffo sorridendo sornione. «La prossima volta che vieni ti faccio vedere la casa, ho visto che guardavi tanto la cucina, e la cucina mica è bella, lì dentro ci si va per faticare. La mia casa invece è piena di cose speciali.» Rosa avrebbe dovuto dire “grazie signore ma sono qui per lavorare”, ma sorrise ingenua e vanitosa dicendo con fin troppa enfasi: «che bello! E avete anche i tappeti?». Chissà come se li immaginava lei i tappeti, fatto sta che il ragazzo aveva gettato l’amo senza nemmeno pasturare troppo, e il pesce famelico aveva abboccato in un istante. Il giorno seguente oltre alle verdure rosa portò anche una cesta di fichi fin dentro la cucina della casa padronale. Appena colti, con la scusa del sole troppo caldo, l’aveva afferrata ed era corsa verso la casa, senza aspettare che la madre le lasciasse il fratellino in balia e andasse lei. La possibilità di vedere cose nuove l’aveva troppo incuriosita. Appena entrata nella cucina Rosa gridò il suo buongiorno talmente forte che chiunque nella casa l’avrebbe sentita. Da dietro la porta una sedia strusciò sul pavimento e rapidi passi si sentirono andare via. Girato l’angolo che dava sul cortile il giovane era sull’uscio di casa in attesa: «buongiorno signorina, li volete ancora vedere i tappeti?” Rosa entrò nella casa con gli occhi che brillavano. E la sua attenzione fu rapita dai tappeti, dai quadri, dalle lampade dai vetri piombati; venne rapita dai divani fiorati, dalle porcellane nelle vetrine, dalle tende di lino ricamate alle finestre. Giorno dopo giorno il signorotto aveva un nuovo tesoro da mostrarle e lei entrava sempre fiduciosa e piena di attese. Fino a quando smise di guardare chincaglierie e dal divano passò a saggiare il materasso credendo fosse amore e fiduciosa si ritrovò in attesa.

Il giorno in cui, insieme alla cesta di verdura, la ragazza portò anche la lieta novella al suo amato, la porta della casa si chiuse a doppia mandata per lei. E venne in poco tempo a sapere dell’esistenza di una moglie malaticcia e annoiata in villeggiatura al mare e di figliole cristianamente avute in un santo matrimonio.

E Rosa rimase sola col suo grembo. Col suo grembo che cresceva e una famiglia disonorata che non voleva un’altra bocca da sfamare e troppe chiacchiere per una figlia degenere. Rosa bussò nuovamente alla porta della bella casa. L’uomo le aprì con un cipiglio mai visto prima: “ti avevo detto di non farti più vedere”. Rosa si stringeva la veste tra le mani con una tale forza da rischiare di strapparla, per la profonda rabbia di doversi abbassare a chiedere aiuto. «Sono senza casa, i miei genitori non mi vogliono tenere e non ho soldi. Aspetto vostro figlio io…». Quello che era stato un ragazzo sorridente ora sembrava trasformatosi in un vecchio burbero. «Mio! Chissà con quanti avrai fatto all’amore! E tieni coraggio a dire che è mio!».

Ma Rosa anche se aveva sempre avuto un sorriso aperto per tutti, aveva fatto cogliere i suoi fiori solo in quella casa; che sciocca era stata, credeva che il signorotto fosse innamorato di lei, credeva che avrebbe chiesto di sposarla, credeva nelle favole lei, che si era sempre creduta scaltra invece. Ma si sa che le donne sono di due specie: quelle che si piangono addosso e quelle che fanno piangere gli altri. Rosa era del secondo tipo. E, tirato un sospiro profondo, tirò fuori le unghie.

«Figlio o no, voi avete tradito vostra moglie, quindi mettetevi la mano al borsello sennò vi accuso». Incisiva e concreta. L’uomo abbassò lo sguardo: «ebbene sarà fatto. Ora vattene, e legati quelle trecce, che ormai non sei più una bambina», e si congedò senza aggiungere altro.

In un paio di giorni fu riaperta una piccola casetta di proprietà del signorotto in un paese vicino. Due stanze con qualche mobile, un focolare, un letto con coperte e lenzuola; c’era perfino un piccolo tappeto.

Rosa si sistemò comoda e senza troppe fatiche in quella casa, ogni poco passava un silenzioso garzone con una cesta di spesa e un piccolo sacchetto di monete, e lei poteva restarsene chiusa in casa aspettando la nascita del suo bambino, con le trecce ormai raccolte dietro la nuca, ricamando qualche camicino.

Alla notizia della nascita fu il giovane ingannatore stesso a far visita a Rosa, e lei nonostante tutto fu felice di vederlo. «Dimmi, è maschio?”. Chiese il giovane rompendo un imbarazzante silenzio. «No, è una bambina, l’ho chiamata Caterina, secondo me vi somiglia, guardate».

Ma non volle nemmeno vederla, aveva già tre figlie femmine e in lui era rimasta la speranza di avere, almeno stavolta, un figlio maschio. Se ne andò in modo brusco e senza dare spiegazioni, ma Rosa era sveglia, non ne aveva bisogno. Sulla porta indugiò un attimo, si tolse dalla tasca un borsello di monete e lo lasciò cadere sulla soglia.

Non arrivò più nessun fattorino, nessuna cesta, nessun altro denaro. E Rosa stringeva i denti, non chiedeva, e nessuno tendeva la mano a quella ragazzina che aveva una figlia senza aver marito, nessuna pena e nessuna elemosina dalla gente del paese che nutriva la propria malalingua delle miserie altrui. Rosa si portava dietro la bambina mentre andava a cercare un lavoro qualunque, ma nessuno la voleva, e sembrava che per quanta buona volontà lei ci mettesse la sorte avesse deciso di punirla nel modo peggiore. 

E una sera se ne stava seduta sullo scalino della sua casina, persa nei suoi pensieri, e mentre le lacrime le scendevano lungo il viso passò lì davanti una vecchia, rubiconda in viso e vestita di nero, col fazzoletto legato in testa, e si fermò a guardare quella creatura piangente, stette un attimo e le mise una mano in capo: «figlia mia non piangere, sei seduta sulla tua fortuna e non lo sai».

Rosa, che sciocca non era mai stata, comprese. Comprese che per uno sbaglio fatto per ingenuità la sua unica risorsa stava nel continuare in quello stesso errore. Continuare a sbagliare, ma almeno avrebbe avuto da mangiare per sua figlia e per sé stessa.

Così le finestre della sua casa si chiusero al sole, la culla di Caterina venne spostata nella cucina e il tappeto posto ai piedi del letto. Il lavabo nella sua stanza era sempre bagnato e il passeggio davanti alla sua porta diventò più assiduo. Gli uomini si guardavano le spalle quando imboccavano la sua porta, e le donne evitavano quel vicolo. E in pochi anni le sue tasche si riempirono a sufficienza, così come la sua cucina che brulicava di bambini, tutti belli e sorridenti come lei, e ciascuno con qualcosa di diverso che li faceva somigliare a un padre sconosciuto. Rosa usciva di casa alla domenica, con i capelli ben sistemati e il vestito della festa e accanto si portava il suo stuolo di bambini, ben sistemati e puliti, indossava uno scialle a coprirle il capo ed entrava a testa alta in chiesa per assistere alla messa. Il prete, che la conosceva molto bene, pregava la gente che vociferava maligna di tacere di fronte alle sfortune altrui. Rosa camminava a testa alta per le vie del paese, nonostante i nomi poco gentili con cui veniva chiamata, e i suoi figli crescevano belli, forti e scaltri. E anno dopo anno poteva avere qualcosa di più, come quelle cose che la ingannarono anni prima i quella bella casa di campagna. Aveva una sua indipendenza e, a modo suo, una sua dignità.

Un uomo solo e benestante prese a frequentare la sua casa, spesso restava più del dovuto ed era felice solo di tenerle la mano, fino al punto in cui le chiese di sposarlo, era sinceramente innamorato di lei, e avrebbe voluto invecchiare con quella donna accanto. Rosa guardò la sua casa, ormai bella, pensò ai suoi figli, ormai grandi e ben sistemati, e pensò a sé stessa, ormai avanti negli anni, e alla sua libertà, e scelse di restare felicemente sola. E a chi le chiedesse “Rosa ma perché fai questa vita?” lei rispondeva sorridendo: «la carrozza è la mia e ci faccio salire chi voglio.»

In memoria di una grande donna